Quando pensiamo ad un nuovo piatto, ci piace muoverci tra memoria e ricordo, giocando sulla sottile differenza che, comunque, li lega.

La memoria come l’insieme delle esperienze personali e delle informazioni raccolte da ognuno di noi nel corso della propria esistenza, sembrerebbe qualcosa di statico, quasi cristallizzato. Per noi, invece, è quell’immenso patrimonio costruito da chi ci ha preceduto e da cui quotidianamente attingiamo per provare a raccontare, attraverso il cibo, quello che siamo stati.

Il ricordo, a sua volta, può arrivare inaspettato, portandosi dietro la nostalgia di un mondo, facendo viaggiare la nostra mente nello spazio e nel tempo. Basta così un piccolo dolce, la madeleine, immersa nel tè di tiglio, come racconta Marcel Proust, e il ricordo, fermo da qualche parte, apparentemente inaccessibile, si svela nella sua potenza. Anche ad occhi chiusi, basta un lieve e soffice profumo e il naso inventa una via d’ingresso nella memoria; o, ancora, un sapore sopito o una consistenza particolare ed ecco che il gusto ci fa muovere, all’interno della memoria, fino a quell’attimo in cui il nostro palato ha provato per la prima volta quella sensazione.

Grazie alla spinta emotiva del ricordo, il passato ritorna, emerge. Soggettivo, intimo, arriva senza controllo, senza freno, semplicemente da riassaporare. Sono i sensi, tutti, a favorire questa emozione, un brivido lungo un attimo; solo dopo, la ragione ci farà comprendere, con consapevolezza, la portata di quell’istante speciale, in cui non siamo più capaci di distinguere tra passato e presente.

È lo stesso brivido che proviamo noi, tutte le volte che qualcuno alza gli occhi dalla tavola per dirci: “con questo piatto mi avete ricordato Mia nonna”.